Sabato 8 novembre, l’Allianz Cloud di Milano ospiterà l’11° episodio del progetto The Art of Fighting (TAF). In totale otto match di boxe professionistica con ben quattro titoli in palio, a partire dalla cintura dei medi EBU Silver. Edoardo Germani, Founder di TAF, ha vinto l’asta dell’incontro di Dario Morello per il titolo EBU Silver tappa obbligata verso la corona continentale (il prestigioso EBU Gold).
Nel main event della serata milanese Dario “Spartan” Morello (25-1), con una striscia, secondo Tapology, di ben 9 vittorie consecutive in altrettanti match, affronterà il 34enne svizzero-albanese Faton “El Vulcano” Vukshinaj (17-1, 2 pareggi) appunto per il titolo EBU Silver dei pesi medi (sulla distanza dei 12 round). Vukshinaj (1.75 cm di altezza) è un pugile pericoloso: 70% di vittorie per KO e potenza da categoria superiore. Ha combattuto, fino ad oggi, principalmente nella Confederazione elvetica e in Germania, perdendo solo contro l’imbattuto Etinosa Oliha (18 successi su 18) lo scorso 23 novembre 2024, nel suo penultimo match, a Rietberg (Ger). Un pugile sicuramente coriaceo e per nulla facile da affrontare.
Morello (32 anni/178 cm), pugile di origini calabresi ma trapiantato al nord, si presenta all’incontro dopo aver sbaragliato la concorrenza nazionale ed essersi messo in bacheca il titolo italiano e altre quattro cinture internazionali.
TheDailyCage lo ha intervistato (con il supporto di Greta Moret), a pochi giorni dal match di Milano (è il match clou della riunione TAF#11), dove si torna a parlare di “grande boxe” tricolore.

D: Morello, può descriverci le caratteristiche del suo avversario?
R: E’ il tipico “in-fighter”, ovvero pugile da corta-media distanza, anche se dall’analisi dei suoi match, come faccio abitualmente, ho notato che è capace di blitz molto veloci (partendo dalla distanza). Pur essendo più basso rispetto al sottoscritto, ha, comunque, una “reach” maggiore. Detto questo, non ne sono preoccupato. So come finirà il match. E’ già visualizzato nella mia mente. E’, tra l’altro, un opponent ideale per le mie caratteristiche…Anche questa volta ho fatto i compiti a casa. So persino come metterò il primo piede salendo sulla scaletta che mi porta al combattimento. Per natura non lascio mai nulla al caso. E’ da sempre un mio punto di forza.
D: “El Vulcano” di lei, invece, cosa deve temere?
R: Non do mai punti di riferimento ai miei avversari. Per lui può essere un bel problema. In generale, poi, non sono mai ortodosso, né come guardia (infatti Morello è ambidestro, nda), né come metodologia o stile di pugilato.

D: Guardando oltre confine quali sono i suoi modelli nella boxe?
R: Sicuramente Oleksandrovyč Usyk (pugile ucraino, attuale campione del mondo dei pesi massimi WBC, WBA, WBO, IBF e IBO, nonché campione lineare della categoria), ma anche il kazako Jänibek Älimxanulı e lo statunitense Shakur Stevenson (già campione del mondo in tre diverse categorie di peso).
D: E come vede il britannico Benjamin Whittaker, campione del mondo massimi leggeri IBF?
R: E’ sicuramente un predestinato. E’ nato per boxare e vincere sul ring.

D: E’ sempre molto mobile sul ring durante i suoi match. Non prende, forse, troppi rischi?
R: Qui parliamo di un talento assoluto, di un campione naturale. Quelli che, a molti profani, potrebbero apparire dei rischi, nella realtà sono movimenti memorizzati durante gli allenamenti. Whittaker prevede, con estrema lucidità, tutte le mosse dei suoi avversari. Ha un pilota automatico con correzioni in corsa anche nei momenti più difficili del match. In gergo c’è una frase che lo rappresenta: è “confident under the gun”, sa già cosa succederà e quindi anticipa tutto schivando nel modo migliore. Questo, chiaramente, crea spettacolo e il pubblico si entusiasma ogni volta che assiste ai suoi combattimenti. In molti casi anch’io mi sento, nei miei match, “confident under the gun”.
D: Ma non sarebbe più semplice fare una boxe più prudente?
R: E’ il suo karma, come interpretazione del pugilato. Se impacchetti Whittaker in un’altra metodologia lo snaturi e lì rischierebbe magari anche di perdere. E’ giusto che salga sul ring in quel modo e che combatta con il suo stile naturale, ovvero quello più adatto alle sue caratteristiche. Fa bene a farlo e i risultati gli stanno dando ragione.
D: Sempre in ambito internazionale, come spiega che, nel medagliere degli ultimi Mondiali di Liverpool, due nazioni, come Uzbekistan e Kazakistan, si siano imposte, subito dietro la Cina, anche rispetto a colossi storici del calibro di USA e GB?
R: Sono nazioni che investono fortemente nel pugilato. In queste Paesi la boxe è sport nazionale e hanno a disposizione un bacino vastissimo di atleti. Sotto il profilo tecnico sono riusciti a “codificare” uno stile perfetto. Un compromesso ideale tra la boxe “pro” e quella dilettantistica (più focalizzata, da sempre, sulla ricerca del “colpo-punto”).

D: E in Italia cosa bisogna fare per tornare a vedere campioni di livello?
R: Primo aspetto strategico è il cambio di mentalità. Vedo, nel nostro mondo, troppo “scissionismo”, troppo super individualismo. Se fossimo uniti, se si lavorasse, appunto in modo coeso, raggiungeremmo dei risultati migliori di quelli attuali. Non si fa quadrato talvolta neppure quando si cercano atleti per fare sparring di livello. Non vedo (al momento, nda) senso di comunità in generale. Ma ci sono, bisogna dirlo, dopo anni di flop del nostro pugilato, dei segnali visibili di risalita. Ripartiamo da questo.

D: Sakara, neo campione del mondo BKFC (nella boxe a mani nude), ha lanciato, di recente, una considerazione/provocazione. Un sasso nello stagno che sta facendo discutere nell’ambiente. Sostiene che gli atleti italiani non amano fare camp e/o esperienza all’estero. E i risultati finali (non sempre positivi), sempre secondo Sakara, sarebbero sotto gli occhi di tutti.
R: Non credo che esista un metodo unico di allenarsi e non credo che sia sufficiente andare all’estero per diventare un campione. E’ chiaro che quando si hanno a disposizione dei grandi numeri è nettamente più facile indivduarli. E’ una questione di selezione naturale, ma non mi fisserei troppo su questo aspetto.
D: Ha avuto nel passato esperienze all’estero?
R: Da “pro” ho fatto 3 anni di camp a Manchester alla celebre Fight Factory. Ma alla fine sono rientrato in Italia. Oggi mi alleno da solo alla “M.a.d. Lab” di Brembate Sopra (in provincia di Bergamo). C’è, comunque, il supporto tecnico di mio padre (a distanza, nda), oltre all’ausilio di Alessio Taverniti (per la parte sparring) e Giorgio Schiavin (padman). Ho un rapporto molto “intimo” con il mio sport, un po’ come Bruce Lee con il kung-fu. Mi faccio anche da direttore tecnico, ma, mi creda, ascolto i consigli di tutti. Non sono un presuntuoso.
D: Guardando al futuro si vede in una possibile sfida mondiale?
R: No, per il momento, proprio perché non sono un presuntuoso. Conosco i miei punti di forza e di debolezza, ma ci sono degli aspetti tecnici da considerare, che sono comunque imprescindibili. Devo prima vincere l’EBU Silver a TAF#11, poi conquistare il “Gold” e fare almeno due difese, vincendo sempre. Ecco perché è prematuro anche solo parlarne.









